+ Dal vangelo secondo Giovanni (10,11-18)
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Lectio divina
IL PASTORE BELLO: LA VITA OFFERTA PER AMORE
L’evento stupendo della Pasqua di Cristo Gesù, dalla morte alla vita, è narrato oggi attraverso l’immagine del buon pastore. È un’immagine evocativa di una realtà ben nota al popolo d’Israele che ha le sue radici nella vita nomade del pastore e che a queste radici torna nella continua frequentazione delle Scritture. Nella Bibbia, infatti, Dio stesso è rappresentato come pastore che guida, difende, nutre il suo popolo (Sal 23; Ez 34,11-16; Is 40, 11).
Il mondo della pastorizia non è così evocativo per noi, donne e uomini della globalizzazione, della tecnologia, ma, l’accostamento alla Parola ci rende familiari e consonanti con figure e aspetti della realtà lontani dalla nostra esperienza: il pastore, le pecore, il mercenario, il lupo, il recinto delle pecore, sono termini carichi della potenza della Parola che illumina la nostra conoscenza.
Gesù è il pastore inviato da Dio a pascere il suo popolo, a prendersi cura di lui, fino a dare la vita. Si spalanca qui il senso pasquale di questo brano evangelico cioè la manifestazione somma dell’amore di Dio per noi: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e lo dà come colui che offre la vita: Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
L’evangelista Giovanni affianca l’immagine del pastore delle pecore a quella del mercenario e del lupo, mettendo immediatamente in evidenza l’aspetto drammatico della missione del Pastore. Dio stesso nel Figlio suo è il lottatore che a prezzo della vita, strappa la preda ai denti del lupo. L’aggettivo buon traduce dal greco il termine bello: è la bellezza di una vita data per amore. Il vero Pastore lo vediamo vittorioso sulla croce. Egli non è buono/bello solamente per sentimenti teneri, amabili, ma per la dedizione appassionata e indiscussa, per la libertà di obbedire come Figlio amato del Padre: Io do la mia vita, per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, io la do da me stesso. Va da sé la contrapposizione del pastore alla figura del mercenario, il salariato disposto ad occuparsi delle pecore di tutti, ma senza avere a cuore la vita di alcuna, pronto a fuggire davanti al pericolo e ad abbandonare il gregge. Non siamo lontani dalla realtà odierna; i lupi hanno oggi diversa fisionomia, ma il pericolo è il medesimo; possiamo chiamarlo mentalità di potere e di sfruttamento, falsificazione della verità, negazione della vita. L’unica guida sicura è la voce del Pastore.
La forza di questa Voce-Parola non può non coinvolgere il discepolo. Ciascuno di noi è chiamato ad avere un cuore da vero pastore e non da mercenario, un cuore libero che non fa calcoli, che non mette il profitto personale al primo posto, neppure all’ultimo; non rivendica i diritti del benessere, ma ha come esempio e forza l’amore folle di Gesù per l’uomo, e si lascia mandare come agnello in mezzo ai lupi (Lc 10,3), come il suo Maestro, agnello condotto al macello, muto davanti ai sui tosatori (Is 53,7).
La forza dell’essere discepolo sta nella reciproca conoscenza col Maestro biblicamente intesa come rapporto d’amore, come esperienza profondissima di condivisione concreta. Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, dice il buon pastore, ed esse lo seguono riconoscendo la sua voce, come la sposa del Cantico dei Cantici: Una voce! L’amato mio! (Ct 2,8). La bellezza di tale conoscenza si riflette nelle parole di Gesù: E ho altre pecore che non provengono da questo recinto … Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore (v. 16).
Nell’ascolto della voce del Pastore, cioè della Parola e della testimonianza dei discepoli, maturano il frutto della sequela del Cristo e l’esperienza dell’essere uno in lui. È un dono rivolto a tutti coloro che ascoltano, anche quanti provengono da altri recinti, siano essi diversi per lingua, razza, cultura, religione: tutti chiamati a formare l’unico gregge, l’unico popolo di Dio in cammino, persone libere che hanno Dio come principio e come fine e vivono da fratelli servendosi l’un l’altro nell’amore. Possiamo pensare così della Chiesa, e ogni comunità credente, come un popolo dalle porte aperte, sempre in uscita e in cammino, accogliente e per questo fecondo di vita nuova e risorta, dietro a Gesù, colui che ama, salva e dà la vita eterna, colui che ha l’odore delle sue pecore.
Sr. Chiara Veronica
Monastero s. Chiara – Milano